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Channel: Coaching – Mario Alberto Catarozzo – Coach e Formatore Milano
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Può servire un percorso di coaching ad un professionista?

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Il grande Zygmunt Bauman nel suo “Modernità Liquida”  scrive: “Il consulente di maggior successo è quello cosciente  del fatto che ciò che i potenziali fruitori dei suoi servizi desiderano ottenere è una lezione esemplificativa. Dato per scontato che la natura dei problemi è tale che possono essere affrontati solo su base individuale e superati solo tramite sforzi individuali, ciò di cui abbisogna chi chiede consiglio è un esempio di come altri uomini e donne alle prese con un problema simile, affrontano tale compito”  (Laterza Editori, 2011, p. 66).

Già, partiamo da qui. In realtà è ancora poco conosciuta in Italia la figura del coach quale consulente di processi decisionali, quale facilitatore del cambiamento, dello sviluppo. Mentre oltreoceano sono ormai da oltre vent’anni che tale figura supporta in ambito business e life individui e gruppi, in Italia gli unici coach conosciuti sono stati fino a pochi anni fa quelli sportivi. I mental coach, coloro che allenano i professionisti preparandoli alle loro migliori performance. Tennisti, nuotatori, calciatori, giocatori di golf hanno coach che li supportano nel generare stati d’animo e mentali potenzianti. Spesso tali coach non sono poi gli allenatori “fisici” o tattici, cioè coloro che seguono gli sportivi negli allenamenti e negli schemi di gioco. Già, perché come diceva Sun-Tzu, la vera battaglia è quella che combattiamo nella nostra testa. E’ lì che accade tutto. E’ lì che poniamo concretamente le basi per un successo o un insuccesso. Perché infatti in una partita un tennista non sbaglia un colpo e in quella dopo fa errori grossolani? Concentrazione, focus, allenamento mentale a sopportare stress, a generare vision e a sviluppare motivazione, tanta tanta motivazione. E’ su questi elementi che ha lavorato col suo coach. E’ su questo che si è preparato. Ha lavorato sui propri stati emotivi; ha imparato a riconoscerli; ha imparato a gestirli; ha imparato a modificarli. Ha lavorato sul dialogo interno, su ciò che lui stesso si dice, prima durante e dopo una gara. Ha imparato che lui stesso può essere il suo miglior alleato o il suo peggior nemico. Ha imparato che le d sono àncore di emozioni, di stati d’animo. Che non è la stessa cosa parlare di “problema” o di “sfida”. Non ha lo stesso impatto emotivo su di noi.

Così a poco a poco ha imparato a lavorare sulla linguistica, sui processi mentali che diventano abitudini, funzionali o disfunzionali. Ha imparato a farsi domande, invece di cercare risposte immediate. Ha imparato che il suo primo vero termine di confronto per migliorare è lui stesso. Ha toccato con mano che una volta “rotto il ghiaccio” il cambiamento è in discesa, non in salta come si vuol far credere. Già, perché se oggi riesco a fare solo dieci vasche in piscina, domani riuscirò a farne una in più perché sarò più allenato e dopodomani una ancora in più e così via. Ha imparato ad annullare le scuse, gli alibi. Ha imparato a prendersi le responsabilità delle sue azioni. Ha compreso che ogni novità e ogni cambiamento va fatto con baby step, per piccoli passi finchè diventano abilità, competenze, abitudini; poi si passa allo stadio successivo. Niente traumi, niente strappi.

Perché allora tutto questo non può valere per l’individuo, il professionista, l’imprenditore? Perché sembra ovvio, comprensibile, che uno sportivo si avvalga di un coach per prepararsi ad una gara, per strutturarsi, per comprendere meglio i propri schemi di pensiero e di azione? Perché invece per un imprenditore, manager o professionista appare ancora qualcosa di strano, di superfluo? Forse una risposta c’è: abitudine.

Negli Stati Uniti è assolutamente nel costume sociale avere un coach come consulente, con cui confrontarsi, pianificare strategicamente, allenarsi mentalmente ad introdurre novità e cambiamenti. Insomma, migliorare. E’ comune usarlo individualmente, è comune usarlo nei team.

Anche da noi la cultura del coaching è arrivata e sta portando una ventata di novità. Già, perché se condotto con professionalità ed etica, non potrà che apportare anche nel mondo dei professionisti, così come in quello aziendale, grandi benefici. Ricordiamoci, infatti, che prima di ogni altra cosa i cambiamenti e i miglioramenti sociali passano attraverso i cambiamenti culturali. Non attraverso le leggi. Non è creando il numero chiuso di accesso ad una professione che si risolve il problema. Non è reintroducendo le tariffe minime, oppure mettendo l’obbligo di un preventivo scritto. E non è certo con continui blitz della Guardia di Finanza in località più o meno famose a caccia di scontrini non battuti e di fatture non fatte che si eliminerà il problema dell’evasione, che è come rubare in casa propria. E’ innanzitutto una questione di mentalità, di abitudini, di innovazione culturale. La speranza è che di fronte a questo mutato scenario economico, sociale e politico, non solo italiano, una nuova mentalità più corale, più lungimirante possa portare un nuovo stile di vita, migliore per tutti. Prenditi cura del sistema e il sistema si prenderà cura di te. Se miglioro io, posso migliorare anche il mondo in cui vivo, che sia l’ufficio, l’azienda, la famiglia, la squadra, la città. In tutto questo la cultura del coaching può rappresentare una grande risorsa. Quando un giocatore è in formissima, tutta la squadra ne trae giovamento!

Buona domenica a tutti, quindi, e che il motto della nostra vita, giorno dopo giorno possa essere “continuo, costante miglioramento”, come suggerisce un grande coach come Anthony Robbins.

Bye bye

Mario Alberto Catarozzo

Mario Alberto Catarozzo - Coach e Formatore Milano | Può servire un percorso di coaching ad un professionista?


Studi professionali: una marcia in più con il coaching

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Il coach è un facilitatore del cambiamento. Un alleato con cui fare chiarezza, pianificare e attuare. Ben presto tra coach e professionista si instaura una partnership, un vero e proprio apporto di fiducia potenziante e funzionale al percorso intrapreso.

Il coach affianca gli studi professionali nei processi di cambiamento, di sviluppo e di rinnovamento velocizzandoli e fornendo strumenti e competenze nuove per il mondo professionale.

Più volte abbiamo avuto modo di parlare di questa “nuova” figura che negli ultimi tempi si vede sempre più spesso al fianco dell’avvocato, del commercialista o dei team di studio. Oltreoceano l’ausilio di un coach, anche nel settore legale, è largamente diffuso. Da noi fino ad oggi, salvo poche eccezioni in realtà metropolitane e in contesti organizzativi professionali ad impronta aziendale, non si era ancora diffuso in quanto poco conosciuto e soprattutto poco conosciuti i suoi benefici.

Negli ultimi tempi, tuttavia, complice il passaggio epocale delle professioni, un mercato economico in forte mutamento e non da ultimo la necessità di interpretare con spirito nuovo e proattivo la crisi economica, il ricorso a questa nuova risorsa è in aumento anche nel settore degli studi professionali. E la cosa più interessante è vedere la velocità con cui, una volta superato l’impasse iniziale e toccati con mano i primi sorprendenti benefici, il legame fiduciario tra professionista e coach diventa un asset del nuovo cambiamento. Questo è quanto vedo quotidianamente nella mia attività con studi e professionisti.

Così, passaggi generazionali in studio, spin-off di studi più grandi, sviluppo di contesti professionali inizialmente in condivisioni di spese e ad un certo punto mutati in associazioni professionali o società tra professionisti, sono tutte ottime occasioni per conoscere i benefici di un percorso di coaching e attuare cambiamenti di mentalità e quindi organizzativi e gestionali.

È questa l’occasione per acquisire nuove competenze, in tema di comunicazione, gestione dei conflitti, problem solving.

Il coaching lavora sul futuro del progetto professionale, sugli obiettivi, sui risultati, sulle risorse attuali e su quelle necessarie da acquisire. Lavora sulle potenzialità e sullo sviluppo dell’individuo come del team di studio.

La mentalità che si acquisisce grazie ad un percorso di coaching è un patrimonio prezioso, spendibile in ogni contesto: nelle relazioni con i clienti, con i colleghi, con i collaboratori, con se stessi.  

Uno dei problemi che vive oggi il professionista è proprio a livello dell’identità professionale, quella professione che ha mutato pelle in così poco tempo. Molte regole e soluzioni di un tempo non solo non sono più funzionali al nuovo contesto; addirittura a volte ne rallentano lo sviluppo. Come relazionarsi in modo efficace con il cliente, come fidelizzarlo, come gestire il proprio tempo e lo stress, come gestire i collaboratori di studio con carisma e leadership, come comunicare con le nuove tecnologie la propria professionalità, ecco solo alcune delle domande a cui oggi il professionista è chiamato a rispondere con prontezza ed efficacia per non perdere competitività e terreno.

Per questa ragione la mia attività di coach abbraccia spesso tematiche e aspetti che inizialmente possono sembrare ovvie, scontate al professionista. Nulla di più sbagliato. Dopo alcune domande e qualche riflessione ecco che quelle situazioni si mostrano in tutta la loro portata: enormi gap per lo studio, momenti di dispersione di tempo ed energie, fonti di stress.

La capacità di svolgere riunioni efficaci in studio, di delegare in modo corretto, di gestire il feedback i collaboratori, di creare team di lavoro su progetti, di generare clima di studio funzionale alle attività, di comunicare all’interno dello studio come all’esterno, di sfruttare risorse sopite e potenzialità latenti di collaboratori.

Il coaching per gli studi professionali è davvero una fonte importante di benessere e di miglioramento delle performance dello studio e della sua immagine. Chi lo ha provato e ha avuto modo di toccarne i benefici sa di cosa sto parlando.

Insomma, una piccola rivoluzione copernicana nel modo di pensare del professionista e nel modo di organizzare la propria attività, dalla gestione del tempo e dello stress, alla gestione dei collaboratori.

Non solo competenze tecnico-giuridiche oggi fanno grande uno studio e un professionista, ma anche competenze manageriali, relazionali e comunicative.

Insomma, una marcia in più per lo studio professionale!

Bye bye

Mario Alberto Catarozzo

Mario Alberto Catarozzo - Coach e Formatore Milano | Studi professionali: una marcia in più con il coaching

Perché il coaching nello Studio professionale

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Associati, in società o in condivisione di spese, lo Studio professionale cambia pelle e diventa grande. Le compagini di Studio risultano sempre più strutturate e di grandi dimensioni. Questo per rispondere meglio alle sollecitazioni del mercato, alle richieste dei clienti ed essere così più competitivi. Tutto ok, fin qui. Ma la sfida della competitività si vince sull’efficienza dei servizi e dell’organizzazione. È come giocare in squadra: se la mentalità è da solista, la squadra ne risente fino ad implodere. Così è per lo Studio di medie-ampie dimensioni. Vogliamo che funzioni? Bene, va abbandonata la mentalità del “faccio tutto io” e va sposata la filosofia del team. I risultati, d’ora in poi, saranno di tutti e raggiunti dal gruppo, non più dal singolo o dei singoli.

Team coaching studio professionale

Ma come in ogni squadra anche nello Studio c’è bisogno di una figura di riferimento, di un team leader, di un allenatore, un coach. Sarà infatti questa figura a guidare le azioni del collettivo, a motivarlo, indirizzarlo e coordinare gli sforzi. È il leader ad avere la vision e a trasmetterla. Sarà da un lato un ispiratore e dall’altro un motivatore. Sarà colui che catalizza gli sforzi dei singoli in una visione collettiva e che ha “in mano” le sorti del gruppo.

Uno Studio con dipartimenti e livelli gerarchici di professionisti deve avere momenti di condivisione, collettivi, che hanno insieme funzione di coordinamento “tecnico”, ma anche di mantenere alta la motivazione e consolidare il senso di appartenenza del gruppo. A gestire questi momenti dovrà essere il team leader (o uno dei team leader) dello Studio.

Far parte di un collettivo non basta: bisogna “sentirsi” parte di un collettivo, sapere ciascuno che ruolo ha, quali funzioni deve assolvere, quali aspettative si ripongono in lui e quali responsabilità deve affrontare. E soprattutto è indispensabile sentire il gruppo intorno a sè, sapere che all’occorrenza c’è chi coprirà la “posizione” che ho lasciato scoperto, sapere che come me tutti sono disposti a sacrificarsi per il bene comune, che si vince o si perde tutti insieme, proprio come in una squadra. Il coaching aiuta a fare tutto questo. Che sia condotto sulla leadership dello Studio per condividerne con i soci la cultura (leadership) che poi saranno questi ultimi a trasmettere ai collaboratori, oppure al team nel suo insieme (team coaching), in ogni caso ogni vero e duraturo cambiamento passa attraverso le menti e le coscienze delle persone.

Solo quando il libero professionista si “sentirà” (e non solo saprà di essere) a capo di un gruppo, con cui condivide le sorti, le aspettative, i progetti e i risultati, solo allora sarà diventato “maturo” per condurre (invece di “servirsi”) uno Studio organizzato verso mete non più solo individuali, ma collettive. Finito l’individualismo, comincia la cultura del team.

Bye bye

Mario Alberto Catarozzo

 @MarAlbCat

Mario Alberto Catarozzo - Coach e Formatore Milano | Perché il coaching nello Studio professionale

Quanto conta l’atteggiamento nella professione? Chi ce la farà e perché. Osate cambiare….

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osate cambiareMi trovo quasi tutti i giorni in aula a lavorare con professionisti in tutta Italia. Ciò mi permette di confrontarmi con centinaia di professionisti ogni settimana: avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, notai. Ho la fortuna in questo modo di raccogliere opinioni, difficoltà, aspettative, progetti, passioni di ogni tipo, che come razzi propulsori spingono le loro scelte, oppure come ganasce frenano i loro entusiasmi.

Alcune considerazioni sono dei comun denominatori trasversali a tutte le professioni:

  1. i clienti che hanno difficoltà a pagare
  2. il lavoro che è peggiorato come qualità
  3. il cliente che è diventato più pretenzioso
  4. la normativa che è sempre più alluvionale e indecifrabile.

In molti queste difficoltà e questi cambiamenti hanno eroso le antiche passioni che hanno spinto verso la professione, mentre in altri hanno generato una vera e propria disillusione sul futuro loro e della professione.

Le conseguenze sono palpabili:

  • preoccupazioni costanti sul fatturato
  • stress cronico
  • cattivo umore
  • rapporti tra colleghi più tesi dove non mancano colpi bassi
  • tensioni all’interno dello Studio
  • desiderio di cambiar vita e aprire il mitico baratto in Costa Rica (questo tutti!).

Un diverso approccio determina scelte diverse e…risultati diversi

Dopo un primo momento di smarrimento passato in una sorta di limbo in attesa che un orizzonte apparisse, molti professionisti oggi sono passati all’attacco, riprendendo in mano le redini del proprio destino professionale. Ne sono l’esempio nuovi siti Internet di Studio, introduzione di una sorta di organizzazione interna che razionalizzi il lavoro (dai gestionali, ad un organigramma e funzionigramma), ai primi tentativi di impostare la comunicazione dello Studio in modo propositivo, senza più limitarsi passivamente al passaparola che per tanti anni li ha supportati.

Altri, invece, sono ancora increduli, smarriti, preoccupati, indispettiti. Il disappunto sulla politica legislativa, sull’andamento dell’economia, sulle cattive abitudini assunte dai clienti e sul deterioramento nei rapporti tra colleghi occupano buona parte del tempo non dedicato attivamente alla professione, tra fascicoli, cancellerie, aule e codici. Per alcuni il disappunto assume la forma di vera e propria ansia, per altri riveste forme malcelate di negatività e rabbia.

Di sicuro, per tutti, la “zona di comfort” che aveva accompagnato la professione per decenni, è venuta meno o si è ridotta ai minimi termini. Crogiolarsi in essa non è più possibile, questo è chiaro a tutti.

Cosa distingue dunque i primi proattivi, dai secondi reattivi?

L’atteggiamento! Quello mentale, prima di tutto, e quello comportamentale, di conseguenza (cosa pensi e cosa fai per…). La ragione per cui la natura ha dotato l’uomo di un organo così prezioso, strabiliante e potente quale è il cervello, è la sua funzione adattiva. Di fronte ai cambiamenti, un organismo intelligente procede cercando di effettuare tutti i cambiamenti interni necessari ad adattarsi all’ambiente esterno mutato. Il compito di un organo così sofisticato, come il nostro cervello, dobrebbe proprio essere questo: cogliere velocemente i cambiamenti e permetterci di correre velocementi ai ripari, adottando tutte le strategie adattive del caso. Possibilmente nel tempo minore possibile. Così la natura ha cercato di garantirci la sopravvivenza. Fisica, certo, ma non solo.

Darwin è rimasto famoso per la sua celebre frase in cui dice che non è il più forte della specie e neppure il più intelligente a sopravvivere, ma colui che si adatta più velocemente al cambiamento. Chi è più flessibile, dunque.

Cosa può sostenere la ripresa e lo sviluppo professionale

Bene, nel nostro caso, poiché stiamo parlando di sopravvivenza professionale e, auspicabilmente, qualcosa di più della semplice sopravvivenza, possiamo affermare che saranno coloro che risulteranno meno rigidi di altri, meno arroccati su vecchie prese di posizione, meno chiusi in automatismi assunti con l’età ad avere la meglio. Volgendo tutto in positivo, come il coaching ci insegna, saranno i più flessibili, lungimiranti, aperti all’innovazione, dotati di umiltà intellettuale ad avere la meglio ed uscire per primi dalle secche della stagnazione del mercato.

Nel celebre film L’Attimo fuggente, il mitico professor Keating (“o capitano, mio capitano…”) ripete ad increduli alunni in piedi sulla cattedra “osate cambiare…è proprio quando pensate di sapere le cose che dovete guardarle da angolazioni diverse…”.

Dunque ciò che farà la differenza nella professione (dando per acquisita l’importanza dell’eccellenza nella preparazione professionale) tra chi ce la farà alla grande, e anzi trarrà giovamento da questi cambiamenti, e chi rimarrà al palo, sarà l’atteggiamento, la nuova chimica mentale che guiderà le giornate in Studio.

Dedicate tempo e risorse a questo aspetto troppo spesso sottovalutato, a cui si guarda con la coda dell’occhio, che non si ha mai il tempo di sviluppare e allenare a dovere.
Fate attenzione, potrete essere imbarcazioni con potenti motori e con una scocca fantastica, ma se chi è lassù, nella cabina di pilotaggio è miope, è abitudinario, è pigro, è in preda all’ansia…la navigazione risulterà molto molto difficile, nonostante i mezzi eccellenti.

La lezione del professor Keating

Vi lascio con il professor Keating, ora:

Buon lavoro e a presto!

Bye bye

Mario Alberto Catarozzo

Mario Alberto Catarozzo - Coach e Formatore Milano | Quanto conta l’atteggiamento nella professione? Chi ce la farà e perché. Osate cambiare….

Quanto conta ciò che pensiamo sulle nostre performance? Timothy Gallwey, il papà del coaching, insegna l’Inner Game

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Siamo stati abituati a fare i “bravi” e lì sono cominciate le interferenze allo sviluppo delle nostre potenzialità. Attraverso queste parole facciamo la nostra conoscenza con un personaggio “storico” del coaching, Timothy Gallwey, e parliamo di performance.

SELF 1 e SELF 2 al comando della nostra vita

Il settantaseienne papà del coaching calca la scena di tre giorni di corso centrati sul tema del talent, leadership, empathy e, soprattutto, la scoperta del nostro self 2, la nostra parte più autentica, troppo spesso controllata e oscurata dal self 1, la parte di noi giudicante e frutto di cultura, educazione e condizionamenti.

Ciascuno di noi ha attitudini e potenzialità innate. Per realizzare noi stessi ed essere felici dovremmo coltivarle, farle emergere, allinearci ad esse. Invece sin da piccoli siamo condotti ad essere come “è giusto”, come è “opportuno”, ad essere “bravi”, appunto. Lo hanno fatto con noi da piccoli, lo facciamo noi con i nostri figli piccoli. Sin dalla tenera età siamo stati allenati a diventare come era giusto che diventassimo per inserirci nel mondo, a seguire un modello, a preoccuparci del giudizio degli altri e nostro. Invece di far emergere da noi, come nella più antica arte maieutica, abbiamo appreso a fare secondo modelli e percorsi prestabiliti da altri, società, scuola, organizzazioni.

La libertà di pensiero del bambino è stata sostituita dalla necessità di adeguarsi, di omologarsi, di essere accettati non per quello che si è, ma per quello che si deve essere. Nel tempo queste sovrastrutture cominciano a pesare come armature medievali, le cui giunture scricchiolano e i movimenti risultano impacciati.

Le metafore che Tim usa sono il tennis e il golf; il campo come luogo in cui mettersi alla prova, in cui toccare con mano la schiavitù della mente che ci dice come dobbiamo fare il movimento, invece di farlo come ci viene naturale, pensare invece che sentire e non fermarsi mai a nutrire la consapevolezza per apportare modifiche nel modo di agire e nella direzione da imprimere. La mente che toglie il piacere di sentirsi tutt’uno con ciò che fai; la mente che ostacola, che complica, che snatura ciò che potrebbe essere invece semplice, fluido, naturale appunto.

La formula delle performance

P = p-i

Le performance sono pari alla differenza tra le potenzialità che abbiamo meno le interferenze. Ma quali sono le interferenze? Siamo soliti attribuirle a fattori esterni, l’azienda, la società, i luoghi, il caso, le persone intorno a noi. Invece le vere interferenze sono principalmente i nostri pensieri, siamo in definitiva noi stessi. Il vero avversario – ci insegna Tim – non è colui che è dall’altra parte della rete nel campo da tennis, ma è nella nostra testa, siamo noi stessi. Anzi, l’avversario dall’altra parte della rete spesso è il nostro miglior alleato, in quanto è colui che ci costringe a far fondo alle nostre migliori risorse. Senza di lui non progrediremmo. Per migliorare nel gioco, infatti, è utile giocare con chi è più bravo di noi e non con chi lo è meno. Ecco che l’avversario temuto è il nostro miglior sponsor. Al contrario, i pensieri giudicanti, le sovrastrutture cognitive sono il vero ostacolo da superare, sono la vera complicazione con cui confrontarsi.

Saper giocare la partita interiore, l’Inner Game, è la vera sfida per tutti!

Buon lavoro

Mario Alberto Catarozzo

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Mario Alberto Catarozzo - Coach e Formatore Milano | Quanto conta ciò che pensiamo sulle nostre performance? Timothy Gallwey, il papà del coaching, insegna l’Inner Game

Cambiare si può, parola di coach!

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Il cambiamento è indipendente dalla nostra volontà. Si cambia anche semplicemente per il trascorrere del tempo, quindi nostro malgrado. Cambiare però non vuol dire migliorare. Il miglioramento dipende invece da noi e quasi mai è casuale. Una vita soddisfacente, felice è spesso frutto di una volontà in tal senso, di una strategia fatta di consapevolezza, di determinazione e di azioni concrete.

Provate a farci caso e noterete che quasi tutte le persone che si lamentano in continuazione hanno vite insoddisfacenti, a metà, non compiute. Ci si potrebbe chiedere se è nato prima l’uovo o la gallina, nel senso se hanno vite insoddisfacenti perché si lamentano senza fare qualcosa per cambiarle, oppure se si lamentano perché hanno vite che non vogliono. Noi propendiamo per la prima visione. Lamentarsi senza fare nulla non serve a nulla. Ma fare qualcosa senza sapere a pro di che, potrebbe essere altrettanto inutile.

Rendere il cambiamento in miglioramento, che porti ad una vita più piena, con maggior significato per noi e, quindi, con maggior soddisfazioni è non solo possibile, ma alla portata di tutti, nessuno escluso. ciascuno parte da dov’è, ma il meglio deve ancora costruirlo, basta che lo voglia e abbia una strategia.

Vediamo insieme su cosa abbiamo ragionato insieme ai lettori di Vanity Fair.

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Inconsapevoli, consapevoli, autoconsapevoli: a che punto siete?

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Tre modi diversi di affrontare la vita e cercare la propria realizzazione e felicità. Vediamoli.

 Inconsapevolezza

A stimolo risposta, questa è l’inconsapevolezza. Ripetere sempre gli stessi schemi, reagire alle provocazioni, vivere quanto già conosciamo per paura del nuovo. Si è sempre fatto così, è inconsapevolezza; è andata bene finora, perché cambiare, è inconsapevolezza. Gridare al telefono perché abbiamo perso la pazienza; accusare l’altro di non capire; farsi dominare dalla fretta; seguire la massa; agire per paura; sfiancarsi per non provare sensi di colpa; paura del rifiuto; paura del fallimento. Eccovi a voi vite e comportamenti inconsapevoli. Non sempre inconsapevolezza vuol dire che non vada bene; alcune reazioni inconsapevoli, istintive, salvano la vita, dunque ben venga. Il problema sorge quando è lo stile di vita ad essere nel suo complesso inconsapevole. Ciò vuol dire che siamo dominati dalle emozioni, dagli istinti e che saranno gli altri a gestirci, in un modo o nell’altro.

inconsapevolezza

Consapevolezza

So di avere paura; sento di avere le forze; temo il nuovo e agisco col batticuore, ma provo; so che così facendo non troverò la strada; capisco che la soluzione sta nel cambiamento; vedo il mio comportamento e comprendo i suoi limiti. Siamo entrati nel livello superiore del nostro stare al mondo. Ora sentiamo e sappiamo di sentire. Ora comprendiamo che esistono altre strade, anche se non le conosciamo. La mente apre le porta a nuove possibilità. Spesso ad una prima sensazione di smarrimento, di ansia per l’ignoto, segue la gioia di cogliere nuove possibilità e nuovi orizzonti. Come il sereno segue la tempesta, così la sensazione di aria fresca segue o stantìo senso del conosciuto. Essere consapevoli è il primo passo verso qualunque crescita, gradino verso una nuova dimensione e prospettiva.
Ricordo la “sensazione di primavera” provata durante gli studi in PNL (Programmazione Neuro Linguistica), dove alla triste sensazione provata per anni dove sembrava tutto pre-impostato, dove sembrava che ad un certo tran tran non vi fosse via di uscita, è seguita la percezione dell’infinito novero delle possibilità.
Molti di noi, per ragioni culturali, sociali, di educazione o esperienze, escludono completamente dalla propria vita l’idea della “possibilità”. “È possibile” non viene mai menzionato nei loro discorsi; “si può fare” sembra escluso a priori. Esiste solo ciò che è stato già fatto, già provato. Spesso questo è sostenuto con forti convinzioni che nel tempo diventano scetticismo verso ogni forma di novità.
Diventare consapevoli dei nostri comportamenti, dei nostri pensieri, delle nostre azioni è il primo passo concreto verso la nostra realizzazione piena.
Si pensa che solo l’uomo sia consapevole, invece anche alcune specie animali lo possono essere. Vi è mai capitato di tornare a casa e trovare il vostro cane che ha fatto un disastro con il divano? Ebbene, basta un vostro sguardo di rimprovero o la classica frase “cosa hai combinato?”, perché il nostro fedele quadrupede si prostri a terra con orecchie basse, coda in mezzo alle gambe e sguardo implorante perdono. Ecco, in quel momento è consapevole di averla combinata grossa!

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Autoconsapevolezza

Siamo giunti al livello superiore ancora. Qui si dischiudono concretamente le nuove possibilità per la nostra vita. Essere autoconsapevoli, vuol dire conoscere le ragioni del nostro comportamento, a pro di che facciamo quel che facciamo. Quanti di noi saprebbero rispondere alla domanda: perché facciamo il lavoro che stiamo facendo? Perché siamo organizzati in questo modo e non in un altro? Perché pensiamo di continuare a farlo?
Probabilmente gran parte risponderebbe a questi perché menzionando le cause delle proprie scelte, più che gli scopi. Qui risiede la differenza tra perché eziologico (cause) e perché finalistico (a pro di che). Il coaching, per esempio, lavora sul secondo e non sul primo.
L’autoconsapevolezza è ciò che permette di prendere il timone della nostra vita in mano. Permette di programmare, progettare e dirigere la nostra azione, invece di essere eterodiretti.

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Vita privata e vita professionale

Tutto ciò vale solo nella vita privata? Certo che no. Vale in ogni ambito della nostra vita, privata come professionale. le due, d’altra parte, sono una cosa sola. Perché scegliamo un certo partner, perché vogliamo avere figli, perché ci vestiamo in un certo modo, perché abbiamo scelto quel lavoro, perché conduciamo un certo stile di vita?

Chi saprebbe dare risposte chiare a se stesso prima di tutto? La vita per tutti non è certo semplice, d’altronde, nessuno lo aveva mai detto, no?! Certo è che se abbiamo maggiori strumenti per affrontarla, gestirla, dirigerla, sceglierla, ecco che diventa più “nostra”, degna di essere vissuta, interessante, coinvolgente. È una scelta anche questa, a monte di tutto.

Come passare dall’inconsapevolezza alla autoconsapevolezza?

Di strade ce ne possono essere tante. Cominciamo dalla lettura di autori giusti a tale fine, occidentali od orientali fa lo stesso, secondo le inclinazioni personali. Passiamo attraverso le tecniche di PNL e di Mindfullnes, alleniamoci con un percorso di Coaching.

Requisiti indispensabili in ogni caso sono la volontà, la curiosità e un approccio positivo alla vita.

Mario Alberto Catarozzo

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Perché le competenze del coaching servono a chiunque

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Richard Bandler ripeteva: “Mi meraviglia sempre vedere come le persone dedichino più tempo a programmare le proprie ferie che la propria vita”. Richard Bandler è uno dei geniali fondatori della PNL (Programmazione Neuro Linguistica).

Programmare la propria vita è un’attività impegnativa, ma entusiasmante. Comporta assumersi la responsabilità delle proprie scelte, ma anche prendersi la libertà e il potere di farle e decidere la direzione da imprimere al nostro futuro.

Noi siamo i costruttori della nostra vita, noi siamo i costruttori della nostra realtà.

Molti potrebbero pensare che queste siano cose di buon senso, che già si sanno. Eppure, se ci pensate bene, pochi ne sono consapevoli e pochissimi le mettono in pratica. L’esito? Condurre una vita che non abbiamo scelto, almeno fino in fondo; lamentarsi perché le cose non vanno come vorremmo; autostima che giorno dopo giorno si sgretola e rassegnazione che pian piano fa capolino nella vita di ciascuno. Che peccato, vero? Abbiamo un unico viaggio, di sola andata, e lo sprechiamo in questo modo. E quali sono le ragioni? Il più delle volte è la mancanza di chiarezza su ciò che realmente vogliamo; altre volte la mancanza di motivazione nel voler perseguire ciò in cui crediamo; altre ancora la mancanza di risorse, a cominciare dalla strategia.

Riprendere in mano la propria vita

Riprendere in mano la propria vita, lavorativa e personale non solo è possibile, ma è l’unica speranza che abbiamo per essere felici. Dobbiamo allora chiederci quale prezzo sono disposto a pagare per ottenere ciò; a cosa sono disposto a rinunciare; quali sacrifici sono disposto a fare.

I più grandi personaggi della storia – politici, sportivi, imprenditori, studiosi, religiosi, manager, uomini e donne – sono quasi sempre partiti dal basso, dal non avere nulla tranne la cosa più importante: una idea, un progetto, un valore-guida. E tanto gli è bastato per fare la differenza e lasciare il segno nel mondo. Esempi? Enzo Ferrari, Steve Jobs, Bill Gates, Madre Teresa di Calcutta, Gandhi, Mennea, Jury Chechi, harley e Davidson, i fratelli Wright, Lincoln e potremmo continuare all’infinito.

Allora, basta alibi, basta vittimismo, basta rinviare e cominciamo, come un ingegnere costruisce il suo progetto a costruire noi stessi, i noi che vogliamo essere tra un anno, due, dieci.

Chiedetevi allora:

  • Cosa avrò se continuerò a pensare così?
  • Dove mi troverò continuando a comportarmi così?
  • Cosa devo fare IN CONCRETO per realizzare il mio progetto?

Scegliete in questo viaggio i migliori per farvi accompagnare: il miglior coach, il miglio consulente fiscale, legale, informatico, la miglior donna, uomo, amici che possiate trovare. E imparate da loro. Invece di risparmiare, investite. Invece di rinunciare, tentate.

Ultima cosa: basta l’alibi di non avere tempo. Come tutti, anche voi ne buttate un sacco in mille modi. Ottimizzate quel tempo per trovarne di qualità per realizzare il vostro progetto verso la felicità.

Per chi vuole rendere il coaching la propria professione, oppure arricchire la professione attuale con competenze utili per sé e per la propria organizzazione, visiti la pagine del master dedicato alla formazione di coach professionisti clicca qui.

Mario Alberto Catarozzo

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Mario Alberto Catarozzo - Coach e Formatore Milano | Perché le competenze del coaching servono a chiunque


Il professionista diventa coach – Il primo percorso di coaching dedicato

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Abbiamo pensato all’avvocato, al commercialista, al consulente del lavoro che hanno il desiderio di fornire al proprio cliente una consulenza più efficace e di più ampio respiro. Accanto alle competenze tecnico-giuridiche, fiscali e tributarie, oggi il cliente chiede al proprio consulente di essere seguito nello sviluppo del proprio business.

Questo accade quando il consulente legale o fiscale ha una visione di insieme del business del cliente e quando riesce ad entrare in empatia con il proprio assistito, per capirne meglio le esigenze e gli obiettivi. Il professionista diventa così indispensabile tassello dei progetti del cliente.

Prepararsi al futuro

Il mondo sta cambiando e le professioni devono prenderne atto e fare qualcosa per farsi trovare pronti alle sfide del futuro. La scuola per diventare coach professionisti ha proprio questo scopo: offrire nuove competenze, nuovi elementi di competitività, nuovi strumenti di lavoro.

Un elemento di distinzione

Il professionista ha bisogno oggi di distinguersi dai colleghi e di essere diverso, migliore, più efficace, più completo. Il percorso è stato strutturato pensando esclusivamente alle esigenze dei professionisti dell’area legale e fiscale.

La scuola

Il 16 gennaio 2016 partirà la prima scuola italiana dedicata a questo target. Al momento sono ancora disponibili 4 posti per completare l’aula che vedrà solo 15 partecipanti, per poter lavorare bene insieme, in modo da essere seguiti individualmente nelle esercitazioni e fornire così non solo la teoria, ma tanta pratica ed uscire dalla scuola, pronti per fare gli avvocati-coach, i commercialisti-coach, i consulenti del lavoro-coach.

Per avere informazione  per saperne di più vai su Futuri Coach Professionisti.

Vi lascio ora con l’intervista fatta su Vanity Fair, dove vengono spiegati il percorso e gli obiettivi.

Mario Alberto Catarozzo

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Mario Alberto Catarozzo - Coach e Formatore Milano | Il professionista diventa coach – Il primo percorso di coaching dedicato

Come il coaching può aiutare il business

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È stato un bellissimo evento quello svoltosi ieri al Palazzo delle Stelline organizzato dallo Studio Martelli e da ICE (Istituto per il Commercio Estero): Expo2Expo – Da Milano 2015 a Dubai 2020. Tre ore dedicate al tema dell’internazionalizzazione dell’impresa italiana verso Dubai e il Middle East. Questi Paesi, non più emergenti, perché oramai emersi da tempo e impostisi come un punto strategico nell’economia e commercio mondiale, sono in fortissima espansione. Il genio italico, la qualità del prodotto, tuttavia, non bastano a strutturare un business importante in queste aree. Questa la partenza del convegno, che ha evidenziato come sia indispensabile per poter avviare un processo di internazionalizzazione serio ed efficace conoscere la cultura locale, usi e costumi, gli scenari economici, il mercato locale, la normativa e avere un partner locale.

I quattro pilastri dell’internazionalizzazione

I relatori hanno così affrontato i quattro pilastri di un progetto di internazionalizzazione serio:

  • La conoscenza dei mercati internazionali e dei trend in atto negli ultimi anni, su cui fondare un business plan e un business model vincente (Prof. Fabio Sdogati – Ordinario di Economia Politica Internazionale a MIP di Milano)
  • L’importanza di una strategia chiara, di una vision che guidi le scelte e di una mentalità imprenditoriale positiva ed efficace (Dott. Mario Alberto Catarozzo – Business Coach)
  • Il valore della conoscenza non solo della normativa societaria e fiscale, ma anche della cultura locale per poter operare scelte efficaci (Avv. Gian Battista Martelli)
  • Il valore di una comunicazione efficace, mirata e opportuna frutto della conoscenza della cultura locale (Dott.ssa Lorenza Bassetti – Esperta di comunicazione, titolare di AD MIRABILIA)

Come può il coaching sostenere i processi di internazionalizzazione?

Coaching e processi di internazionalizzazione, questo è l’argomento che ho avuto il piacere di affrontare durante il convegno, in qualità di business coach che affianca e supporta organizzazioni, imprese e studi professionali nei processi di sviluppo. Cosa serve dal punto di vista strategico, ad una impresa che vuole internazionalizzare e quindi allargare il proprio mercato verso i Paesi del Middle East? Innanzitutto serve una mentalità strategica, quindi una vision chiara, obiettivi ben definiti, i migliori partner come consulenti e flessibilità operativa.

Senza obiettivi chiari e definiti non sapremo se la direzione intrapresa è quella giusta, se durante il percorso stiamo sbagliando qualcosa e non avremo modo di “misurare” e quindi di migliorare le nostre performance nel tempo.

Senza una strategia potremo essere dotati di tanto entusiasmo, ma rischieremo di procedere ad istinto, “a naso”, con tutte le conseguenze del caso, lasciando alla fortuna tappo spazio di azione.

Senza consulenti preparati e seri, rischieremo di accorgerci durante il cammino di aver scelto compagni di viaggio non idonei e quindi di sentirci esposti al caso e all’improvvisazione.

Senza una mentalità flessibile, il rischio è di demoralizzarsi al primo ostacolo, di irrigidirsi nelle scelte e di desistere alle prime difficoltà. Ricordiamoci sempre che gli occhi devono essere puntati sulla meta e la strategia dovrà sapersi adattare alle circostanze per permetterci di raggiungere la meta prefissata. La “magnifica ossessione”, come la chiamava Steve Jobs, dovrà farci da stella polare e la determinazione da benzina del nostro cammino.

Vi lascio alla presentazione di questa parte di business coaching dell’evento.

A presto!

Mario Alberto Catarozzo

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Mario Alberto Catarozzo - Coach e Formatore Milano | Come il coaching può aiutare il business

Benvenuta crisi!

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«La crisi è la miglior benedizione», parola di Albert Einstein.

Sebbene oggi sia intesa in un’accezione negativa, l’etimologia della parola “crisi” (dal greco krino) significa “separare, valutare” e sta ad indicare un periodo di riflessione che può portare a progressi successivi. Questo è possibile concentrandosi sui potenziali benefici che la crisi porta. È il punto di partenza, la spinta che permette di aprirsi nuove strade, di sfruttare tutte le risorse possedute per trarre il meglio da ogni situazione, stimolando la creatività.

Vediamo, nell’articolo pubblicato su Vanity Fair My Business, come sia possibile guardare alla crisi in un’ottica un po’ diversa, smorzando le paure che ci invadono al solo pensiero.

Buona lettura.

Mario Alberto Catarozzo

Scarica il pdf dell’articolo: Benvenuta crisi!

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Mario Alberto Catarozzo - Coach e Formatore Milano | Benvenuta crisi!

Causa che pende causa che rende

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Era questa la massima che per generazioni ha accompagnato la professione forense. L’avvocato “azzeccagarbugli” di manzoniana memoria non è poi così lontano nel tempo. La Corte di Cassazione con sentenza del 12 maggio 2016 specifica a chiare lettere che


“l’avvocato ha l’obbligo di non consigliare azioni inutilmente gravose e
informare il cliente sulle caratteristiche della controversia”


Insomma, un monito chiaro verso coloro che della lite ne hanno fatto un business. Se mettiamo insieme questo ultimo tassello con le pratiche che negli ultimi anni stanno cercando di far breccia nelle abitudini italiche – ci riferiamo alla mediazione civile e commerciale, alla mediazione familiare, al diritto collaborativo, alle ADR, alla negoziazione assistita – possiamo decisamente intravedere un cambio di tendenza nella mentalità dei cittadini e dei professionisti: negoziare e saper comporre i conflitti sembra oramai la soluzione migliore da praticare.

I cambiamenti per la professione in Italia

Ma a che punto siamo in Italia? Pare che su questo percorso siamo solo all’inizio, visti i dati della giustizia e le statistiche italiane ed europee sul numero dei processi pendenti (lo so, le cause sono molteplici e la giustizia è una macchina farraginosa che non funziona sotto molti punti di vista).

Ciò di cui possiamo essere certi è che il vecchio detto “causa che pende, causa che rende” non funzionerà più in futuro, sia perché la causa che pende rende sempre meno, sia perché la mentalità di clienti e operatori del diritto è volta verso una semplificazione al posto di una complicazione delle risoluzioni delle liti. Una nuova mentalità, insomma, si sta affacciando all’orizzonte, chissà se ne vedremo l’applicazione in questa o nella prossima generazione di professionisti.

Mario Alberto Catarozzo

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Sviluppare il business dello Studio professionale – Strategie per un nuovo approccio in un mercato che cambia

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Finalmente è uscito. “Sviluppare il business dello Studio professionale – Strategie per un nuovo approccio in un mercato che cambia”, un libro nato dalla penna di sette autori, esperti di legal marketing e di comunicazione.
Lo scopo del volume, edito da Alpha Test, è quello di illustrare ai professionisti dell’area legale quelle strategie necessarie per essere competitivi in un mondo digitale, così come l’importanza di un’organizzazione efficace dal punto di vista della comunicazione dello studio.
 

Metamorfosi delle professioni

Il profondo cambiamento affrontato dalle professioni a seguito della crisi avvenuta nel 2008 ha comportato una corposa rivisitazione dei modelli di sviluppo del business adottati sino a quel momento.
Il sempre maggiore sviluppo delle tecnologie digitali, poi, ha obbligato i professionisti a stare al passo con i tempi, per non venir tagliati fuori da un mercato che evolve sempre più rapidamente.
I modelli di business su cui ci si è basati vanno necessariamente ripensati, le proprie azioni di marketing modificate. Il business development deve tenere conto del fatto che è sul web che prendono vita progetti e idee innovative, che il suo futuro è online
Infinite opportunità si stanno aprendo grazie al mondo del digitale, ma solo per coloro che le sapranno cogliere.
 

La presentazione del libro

Lo Swiss Corner di Milano ospiterà la presentazione del libro nella giornata di oggi, 31 maggio 2016, alle ore 18. Il saluto di apertura sarà a cura di Giorgio Berner, presidente della Swiss Chamber, il quale inaugurerà la serata.
La serata, organizzata con il patrocinio della Camera di Commercio Svizzera in Italia, vedrà come ospiti d’eccezione Giovanni Lega (Presidente di ASLA), Luca Testoni (giornalista) e Mariavittoria Rava (presidente della Fondazione Francesca Rava).
Per partecipare alla presentazione, comunicare la propria adesione a: eventi@swisschamber.it o al numero +39 02 76320340.
 
Mario Alberto Catarozzo

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La forza di rialzarsi e la strategia vincente. La storia di Cassius Clay (Muhammad Alì)

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Ciò che non era riuscito a fare alcun avversario sul ring, lo fece la burocrazia a tavolino. Era il 1967 quando al campione del mondo Cassius Clay, oramai divenuto Muhammad Alì, venne tolto il titolo perché “renitente alla leva”. Alì si era rifiutato di partire per il Vietnam, manifestando pubblicamente la sua avversione alla guerra. Questo KO tecnico, tuttavia non lo fermò, finchè nel 1971 la Corte Suprema annullò la condanna, riammettendo Alì nel pugilato professionista. Da quel momento Alì non era più solo un campione sul ring, ma anche fuori dal ring. Divenne un’icona non solo per gli sportivi, ma anche per tutti coloro che combattevano per i diritti civili degli afroamericani, sostenendo le iniziative di Martin Luther King e di Malcom X.

Nell’incontro del secolo, tenutosi a Kinshasa nello Zaire il 30 ottobre 1974, Alì riconquistò il titolo mondiale che gli era stato tolto, stupendo il mondo per la sua determinazione, tattica e coraggio. KO tecnico a George Foreman all’ottava ripresa, questo fu l’epilogo del “The rumble in the jungle”, come fu ribattezzato l’incontro.

L’importanza di avere una strategia

Muhammad Alì non avrebbe mai riconquistato il titolo senza una tattica. Lui, 191 cm di muscoli e grinta, preparò l’incontro minuziosamente. Si allenò per mesi a Kinshasa andando a correre per le strade di questa cittadina alle 4 del mattino, orario in cui si sarebbe svolto l’incontro ufficiale, per adattarsi al caldo afoso africano. Si preparò atleticamente non solo per essere la solita “farfalla” sul ring e quindi coltivare l’agilità che lo aveva sempre contraddistinto. Strategia Muhammad AlìNo, questa volta aveva studiato bene il suo avversario, molto più giovane di lui e molto potente fisicamente. Questa volta la tattica doveva essere diversa. Fu così che si allenò per aumentare la resistenza al dolore, per sviluppare i muscoli addominali laterali, per poter sopportare la scarica di pugni che ragionevolmente il suo avversario gli avrebbe riversato addosso.

Ma la sua strategia non si fermò qui, non si limitò alla parte atletica. Coinvolse anche gli aspetti psicologici dell’avversario e usò i media nel suo piano per innervosire l’avversario, sfidandolo pubblicamente e con veemenza al limite dell’aggressione verbale. Foreman era giovane e Alì voleva fargli perdere la testa perché sfogasse subito nei primi round la sua potenza e si stancasse prima. Non era ancora finita. Alì dichiarò più volte alla stampa che avrebbe volato sul ring, che l’avversario non sarebbe riuscito neppure a toccarlo… Altra strategia per far credere a tutti che avrebbe combattuto come sempre, di agilità prima ancora che di potenza.

Ogni strategia porta i suoi frutti

Il mondo restò stupito sin dai primi secondi di quello storico incontro a Kinshasa di come Alì fosse diverso. Non stava saltellando agilmente da una parte all’altra del ring, come aveva sempre fatto. No, stava lì quasi immobile a farsi colpire ripetutamente dai terribili colpi di Foreman. I primi cinque round andarono avanti così, finche i risultati della strategia di Alì cominciarono a vedersi. Foreman appariva stanco, aveva scaricato buona parte della sua furia e della sua potenza. Ecco Alì venir fuori. Ora cominciava a saltellare sul ring come eravamo abituati a vederlo; ora cominciava a girare attorno al suo avversario e stava preparando il colpo vincente, che arriverà all’ottava ripresa. KO al tappeto. La strategia aveva prodotto i suoi frutti.

Cosa ci insegna

Non basta avere entusiasmo, come non basta la determinazione e la grinta. “La potenza è nulla senza controllo” diceva una nota pubblicità. La forza di volontà, lo spirito di sacrificio rischiano di perdersi nel nulla senza produrre effetti se non sono incanalate in una strategia diretta verso un obiettivo. Come abbiamo molte volte affrontato in questo blog


partire senza una meta chiara è vagabondaggio e
avere una meta chiara senza una strategia definita è andare all’arrembaggio.


Se non volete rischiare di disperdere le vostre energie e sacrifici in mille tentativi e rivoli, allora prima di partire verso una meta investite il giusto tempo per definire una strategia adeguata e solo dopo agite con determinazione e grinta.

“Se mi chiedessero di abbattere un albero in otto ore, sei le dedicherei ad affilare l’accetta” diceva Abram Lincoln.

Non abbiate fretta di partire, dedicate prima il tempo necessario a definire il percorso, le tappe, gli strumenti, i compagni di viaggio e la tattica da seguire e solo dopo passate all’azione e date inizio al viaggio.

Mario Alberto Catarozzo

Leggi la terza puntata dell’ebook “10 STORIE INCREDIBILI PER IMPARARE A CREDERE IN NOI STESSI!

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Il coaching (quello vero) spiegato agli scettici

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Avete presente il film Le leggi del desiderio di Silvio Muccino? Dove il protagonista, coach-guru, con tanto di capello lungo a coda di cavallo, salta sul palcoscenico, grida e incita i partecipanti? Dove il guru dispensa consigli, guida verso una vita di soddisfazioni e rappresenta la luce per i propri “discepoli”? Ecco, quello con il coaching non c’entra nulla. Almeno per il coaching come lo intendo io e coloro che del coaching serio ne fanno una professione seria. Anche da noi in Italia, così come oltre oceano esistono coach vocianti, che si agitano sul palco e cercano di “pompare” i partecipanti caricandoli come batterie. Quello non è coaching, quelli sono spettacoli, alcuni pessimi altri belli, ma pur sempre spettacoli.

Che cos’è il coaching?

Lo scopo del coaching non è certo quello di caricare come batterie che si scaricheranno qualche ora dopo, né tantomeno quello di costruire maestri-guru che guidino le persone verso il cambiamento come un percorso di rinascita o cose simili. Lasciamo questi spettacoli al cinema o a chi non sa fare coaching tecnico, serio e utile. Andiamo a vedere allora cosa fa un coach e cosa può fare un percorso di coaching. Premesso che vi sono diverse scuole di coaching, quindi con differenti approcci e tecniche, tutte condividono l’idea che il coach deve essere un partner del percorso di cambiamento per il coachee. Il coach affianca, facilita, supporta, ma non guida e tantomeno si sostituisce al coachee. Sarà quest’ultimo a dover mettere in pratica, a dover attivare quello che si chiama “esperienza emozionale correttiva” e toccare con mano le proprie possibilità per poi coltivarle e farle diventare nuove abilità e nuove abitudini.

motivazione

Il coach, se bravo e se appartenente ad una buona scuola con basi solide di tecniche e di mentalità, sa entrare in empatia (la PNL parla di “rapport”) con il proprio coachee, sa entrare nella sua “mappa” e da lì partire, spalla a spalla, verso un percorso di sviluppo di potenzialità, di consapevolezza e di nuove abilità.

Niente di esoterico, niente di trascendentale, solo

  • maggior consapevolezza
  • maggior chiarezza di intenti
  • maggior fiducia in se stessi e tanta tanta pratica.

La finalità del coaching non è creare un rapporto di dipendenza tra coach e coachee, bensì all’opposto far apprendere al coachee una nuova mentalità e una nuova “chimica mentale” per saper in futuro gestire da sé le sfide che nella propria vita si presenteranno.

Cosa cercano le persone nel coaching

Lavoro da molti anni come coach con professionisti, manager, imprenditori, ma anche con persone dello spettacolo, sportivi e con adolescenti. Le richieste possono essere diverse, ma le esigenze sono tutte riassumibili in un’unica direzione: alla fine si cerca di raggiungere maggior soddisfazione e felicità.

Certo, perché se so gestire meglio la relazione con il mio capo, oppure se so organizzare meglio il lavoro in ufficio, o se riesco a decidere qual è oggi la scelta migliore lavorativa, o ancora se riesco a scegliere il corso di laura che davvero mi appassiona o se riesco a negoziare meglio il mio stipendio sarò più soddisfatto di me (autostima), sarò più soddisfatto delle mie scelte e mi sentirò sulla strada giusta verso ciò che mi rende felice e che mi dona una sensazione di pienezza.

Avrò da questo momento la sensazione di tenere il “timone” della mia vita.

Questo fa il coach: si pone come un riduttore di complessità di fronte alle scelte e aiuta a fare chiarezza, a fissare le priorità e poi a definire una strategia di azione per portarla a termine fino al risultato. Il resto lasciamolo alla new age, alle americanate, alla filmografia e a chi non sa fare il coach e fa il “motivatore” non meglio definito.

scuola di coachingNella nostra scuola trasmettiamo questi principi e i nostri coach sono professionisti ben formati, competenti, seri e soprattutto etici nel modo di agire.

 :

 

Il coaching per sé e per gli altri

Il coaching non è una professione “che si fa”, ma è una mentalità che si acquisisce.

Si è un coach, non fa il coach.

Chi fa un percorso di coaching, sia come coachee con un coach, sia nella scuola per acquisire la qualifica di coach da affiancare alla propria attività o per fare poi la professione, lavora profondamente su se stesso. Prima di poter lavorare come coach bisogna lavorare con il self coaching sulle proprie convinzioni limitanti, pregiudizi e abitudini per poi acquisire tecniche, mentalità e strumenti per agire professionalmente nel mondo del coaching ed essere un reale supporto per chi intraprende percorsi di crescita e sviluppo.

Mario Alberto Catarozzo

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Evoluzione tecnologica inarrestabile

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Evoluzione tecnologica inarrestabile, questa è l’unica certezza che abbiamo. Per essere competitivi i professionisti dovranno essere sempre al passo con i tempi, anche dal punto di vista tecnologico. Ciò sia per immagine, sia per offrire servizi adeguati alle richieste dei clienti.
L’ultima novità in ambito tecnologico riguarda l’introduzione del 5G per devices sia mobili che fissi.

Ma cos’è esattamente il 5G e quali cambiamenti si propone di introdurre?

Il 5G è la quinta generazione di rete mobile che supererà, e con un notevole distacco, l’attuale 4G di cui facciamo uso. La standardizzazione di questa tecnologia avverrà entro il 2020; nel contempo sarà possibile comunque accedere alle relative applicazioni.

Ecco i vantaggi che porterà con sé:

1- La banda: si otterranno connessioni fino a 10Gbit al secondo

2- Il numero di connessioni: potrà arrivare fino a 100 miliardi.

3- La bassa latenza: scenderà fino a grandezza del millisecondo.

Ciò significa che la velocità sempre maggiore con cui viaggeranno i dati, la riduzione del tempo impiegato per scaricarli sul dispositivo (latenza) e la possibilità di avere un numero decisamente elevato di connessioni, aumenteranno i ritmi a cui viaggiano le persone.
L’introduzione della nuova rete influenzerà il modo in cui i nostri clienti ci percepiranno, come ci vivranno quotidianamente. Sarà ancora più facile raggiungerli, grazie alla rapidità di ricezione dei contenuti su tutti i devices disponibili.

L’impatto sulla professione

La necessità di non farsi trovare impreparati è quindi di vitale importanza per i professionisti. Su questo punto c’è un po’ di strada da fare, come si evince dall’intervista condotta da Forbes Insight. I più di 1.000 dirigenti aziendali intervistati affermano di essere consapevoli del knowledge gap riguardo la rete 5G e i potenziali vantaggi che questa porta con sé. Un numero ancora più esiguo è rappresentato da coloro che hanno iniziato a pianificarne un possibile utilizzo all’interno della propria azienda.

Sensori wearable, bluetooth, mobilità

La rivoluzione in atto comporterà una convergenza del mondo virtuale con quello reale, dando il via libera all’Internet of Things. L’IoT è un’estensione di Internet al mondo degli oggetti. Tramite l’utilizzo di sensori, è possibile registrare determinati dati da oggetti e ambienti. Grazie ad applicazioni web, si possono interpretare questi dati e ricavarne informazioni utili per la propria attività.
Le continue novità introdotte nel mercato offrono infinite possibilità di sviluppare il proprio business. Uno sviluppo, tuttavia, possibile solo grazie ad un costante aggiornamento che, se costante e specifico, aumenterà il valore percepito dal cliente nei confronti dei servizi a lui offerti.

Se tutte queste novità interesseranno in primis l’azienda, c’è da chiedersi come potranno influenzare i professionisti che con l’azienda lavorano. Beh di sicuro possiamo immaginare che dirigenti e imprenditori si abitueranno a viaggiare con la conseguente velocità e ad utilizzare i device mobili per relazionarsi con i propri consulenti non solo telefonicamente o via messaggi, come accade ora, ma con ogni probabilità anche in videoconference in mobilità. Dal momento in cui la connessione diventerà molto più efficiente, stabile e veloce, ecco che si aprirà la strada per la rivoluzione che sta già coinvolgendo il web: il video in sostituzione degli articoli scritti.

Mario Alberto Catarozzo

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Autostima: come recuperarla e imparare ad allenarla

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Qual è il giudizio più importante per noi? Quello che ci diamo noi stessi.

Da qui parte ogni discorso che riguardi l’autostima. Se il primo a non credere in sé siamo noi, ogni altro sforzo è vano. Possiamo accumulare ricchezze, coltivare la bellezza estetica, circondarci di adulatori…ma il fondamento della nostra autostima sarà fragile, labile.

Come si fa a credere in sé stessi, se si è stati abituati sin da bambini ad essere criticati e focalizzati su ciò che ci manca, che non sappiamo fare? Come si fa a nutrire, allenare, coltivare la propria autostima?

Convinzioni limitanti, cultura dell’errore, poco allenamento a ritrovare il centro dentro di sé lavorano ogni giorno come la criptonite per Superman.

Vediamo allora 10 principi utili a riprendere in mano il percorso per nutrire e allenare la propria autostima. Parliamo di allenare, perché è proprio come andare in palestra: non sarete in forma dopo esserci andati una volta e neppure due o tre. Dovete continuare ad andare in palestra, allenarvi, per sentirvi bene e stare in forma. La stessa cosa accade con l’autostima: devi continuare ad alimentarla per tenerla alta.

Vediamo cosa ci può aiutare a recuperarla e allenarla:

  1. Poni fine alle convinzioni limitanti introducendo questa frase nel tuo dialogo interno: “Perché no?” “Come faccio a sapere come andrà?”.
  2. Visualizza una immagine di te che ti piace particolarmente. Pensa ai dettagli, e cerca di sentire le emozioni che si producono nel vederti così come ti piacerebbe sempre essere, il tuo “io ideale”.
  3. Agisci senza pensare a cosa accadrà un secondo dopo, agisci e basta! Pensa a cosa ti piace e poi agisci per ottenerlo, senza pensare a cosa penseranno o faranno gli altri, tanto lo saprai solo dopo, prima stai solo tirando ad indovinare.
  4. Se sbagli, se non ottieni il risultato avrai imparato due cose: che puoi agire e sbagliare e sei ancora “vivo” e che ora sai cosa non fare: hai fatto un’esperienza. Il vero problema è che se non affrontiamo una paura, questa la volta dopo sarà più grande, fino a diventare un “mostro” e sentirci piccoli piccoli di fonte a lei.

La paura del fallimento è ciò che blocca tutti


Il vero problema è che se non affrontiamo una paura, questa la volta dopo sarà più grande, fino a diventare un “mostro” e sentirci piccoli piccoli di fonte a lei.

  1. Se sei rifiutato ricorda che il rifiuto non dice nulla su di te, ma dice qualcosa su chi lo pone: ci dice qualcosa sui suoi gusti, tempi e modi. Non saremo quelli giusti per l’altro in questo momento. Ok, saremo quelli giusti per qualcun altro.
  2. L’unico vero parametro a cui devi ispirarti per migliorare sei tu stesso e non gli altri. Chiediti cosa oggi sai fare meglio di ieri e motivati con ciò a fare sempre meglio rispetto a ieri.
  3. I tuoi difetti e i tuoi limiti sono parte della tua forza e non vanno combattuti, vanno resi amici per combattere insieme e affrontare le sfide. Impara ad amare i tuoi difetti ironizzandoci sopra. Lo humor e l’autoironia sono grandi doti che ci rinforzano. Essere rigidi, invece, ci rende più fragili e insicuri.
  4. Sii fedele a te stesso e non violare mai i tuoi principi e i tuoi valori per piacere agli altri. Comincia a pensare di fare le cose per te e non contro qualcuno. Se sarai più felice, più realizzato, le persone che ti stanno vicino godranno della presenza di una persona più felice e realizzata.
  5. Impara a dare prima di voler ricevere. Le persone non amano chi chiede, amano chi da, chi le fa sentire importanti, chi collabora con loro. Poi, vedrai, ti restituiranno quanto hanno ricevuto con gli interessi emotivi della gratitudine.
  6. Godi delle piccole cose e nutriti del bello, in ogni sua forma. La felicità e la serenità sono in ogni aspetto della giornata, tutte intorno a noi: da un buon caffè al bar al mattino, al sorriso di un passante, dal saluto del collega al cielo azzurro di una bella giornata estiva, al venticello seduto al bar, alle note di una bella canzone. Non ci vuole molto per essere felici e saper trovare il bello nelle piccole cose permette di realizzare e, soprattutto, godere delle grandi conquiste.

Mario Alberto Catarozzo

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Perché re-innamorarsi di se stessi ci può rendere felici

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Sapete amarvi, autenticamente, oppure siete principalmente preoccupati di cercare situazioni che vi facciano stare tranquilli (quindi lontani dalla paura)? Sono state molte nell’ultimo periodo le richieste di coaching di chi, finita una relazione, si è sentito perso, senza sapere da dove ripartire; di chi, in quel momento di debolezza, ha dovuto fare i conti con la bassa autostima e con il “giudice interiore” che implacabile non ci lascia tregua.

Da dove si riparte in questi casi? E come?

Da sé stessi è la risposta che sentiamo più spesso. Vero, ma dirlo è una cosa, farlo è un’altra. All’atto pratico, cosa vuol dire ripartire da se stessi? Vuol dire pensare a sé? Sì, ma questo non fa certo sentire meno soli, oppure meno spaventati per il futuro incerto che si palesa davanti.

Vediamo allora, con semplici passaggi molto concreti come si può ripartire dopo una delusione di una relazione, soprattutto per chi non è “capace” di stare un po’ da solo, perché non lo ha mai fatto, o perché è da tanto tempo che non prova questa sensazione sgradevole di solitudine.

Insieme per non stare soli

Immagino che molti di voi che in questo momento stanno leggendo queste righe conoscano amici che stanno insieme a qualcuno prevalentemente per non stare da soli, per la paura del rimanere soli che terrorizza molti.

Partiamo col dire che a tutti piace essere amati, avere qualcuno che pensa a noi, qualcuno da telefonare nei momenti belli e in quelli brutti. A dispetto dei single incalliti e orgogliosi la “solitudine” non è una condizione naturale e non piace a nessuno. Partiamo dunque da qui.

Il secondo passo da compiere è nella distinzione del perché cerchiamo qualcuno e vogliamo stare insieme.

La solitudine è come una lente d’ingrandimento:
se sei solo e stai bene stai benissimo, se sei solo e stai male stai malissimo.
(Giacomo Leopardi)

L’altra persona che agogniamo una necessità per colmare qualcosa, per rispondere alla “paura di”, oppure è il desiderio di aggiungere a ciò che abbiamo qualcosa che da soli non possiamo avere? Quindi, tornando alle nostre lezioni di coaching, è la “leva via da” a guidarci, oppure la “leva verso”? La leva della paura o quella del desiderio? Le due strade non portano certo nella stessa direzione: la prima è reattiva, la seconda è proattiva. La prima ci allontana da qualcosa, speso senza verificare bene dove stiamo andando, la seconda ci conduce verso qualcosa che invece vogliamo davvero per quello che è.

Soli anche se insieme

È difficile trovare la felicità insieme a qualcuno, se prima non riusciamo a stare bene con noi stessi; così come è difficile riuscire e donare il meglio di noi, se prima questo meglio non riusciamo a viverlo e apprezzarlo prima di tutto noi stessi. Tanti sono gli esempi di coppie che si reggono in piedi come due carte da gioco appoggiate l’una all’altra, in un precario equilibrio di bisogni e paure.

Quindi: da dove ripartire dopo una delusione?

Dall’amore verso se stessi. Re-innamorarsi (o per alcuni, innamorarsi per la prima volta) di se stessi è un passaggio importante per costruire le basi di un futuro rapporto felice. Cosa vuol dire, quindi, re-innamorarsi di se stessi? Vuol dire rallentare un attimo, dare spazio alle proprie emozioni, prendersi cura di sé nelle piccole cose, come nelle grandi. Vuol dire scoprire come perdonare i propri errori e volersi bene lo stesso (anzi di più); come far pace con i propri difetti fisici e caratteriali; come tornare a sognare a qualunque età un posto migliore dove stare: il proprio futuro.

Il futuro è un progetto e dipende da noi

Nella nostra cultura, intrisa di morale e moralismi, innamorarsi di se stessi viene associato all’egoismo. Vero, ma un sano egoismo, quello che permette poi di essere autenticamente altruisti, invece che ipocritamente altruisti. La vera prima responsabilità che abbiamo è verso noi stessi, per rendere questo viaggio di sola andata il più interessante, ricco e meraviglioso possibile.

Innamorarsi di se stessi non vuol dire sbattere in faccia agli altri ciò che ci piace e farsi i fatti propri. Al contrario: vuol dire essere autentici, pieni, allegri, aperti a condividere con gli altri ciò che ci piace, senza cercare di cambiare nessuno e di imporre niente a nessuno. La felicità in una relazione è una combinazione chimica naturale e non forzata.

Ci vuole tempo? Chissà, forse. A ciascuno il suo tempo. Il resto è caso, fortuna, legge di attrazione. Certo è che ne vale la pena. È la che dobbiamo puntare, al poterci dire: ho aspettato, con coraggio, ma oggi so che ne è valsa la pena.

La felicità è un’attitudine

La felicità, la pienezza, la realizzazione, l’amore, la serenità, sono momenti e sono dappertutto. Un concerto, una mostra, una partita di calcio, un balletto, un bel film, una serata con gli amici, una notte di passione, le coccole del proprio cane, un buon caffè, le polpette col sugo della nonna, un tramonto, un gesto di generosità, gli occhi di gratitudine di uno sconosciuto, il sorriso del barista al mattino, la spaghettata una sera d’estate, l’odore della pastiera napoletana, una corsa al mattino con la tua musica preferita, il lato B di una bella donna (per le donne, la tartaruga di un nuotatore), la scia di profumo affascinante, uno sguardo complice.

Abbiamo dimenticato cosa sia guardarsi l’un l’altro, toccarsi, avere una vera vita di relazione, curarsi l’uno dell’altro. Non sorprende se stiamo morendo tutti di solitudine.
(Leo Buscaglia)

Insomma, la fine di una storia può essere una grande opportunità per scoprire o riscoprire che la vita è bella perché è fatta di mille occasioni quotidiane per essere felici e stare bene. Anche quel senso di solitudine e quel disagio del sentirsi al momento soli sono un’ottima fenditura attraverso cui raggiungere più velocemente se stessi, coccolarsi, riscoprirsi e reinnamorarsi di chi siamo diventati oggi, per poi, fatta pace, ripartire meglio di prima con chi avrà voglia di condividere con noi, senza volerci cambiare a sua immagine e somiglianza.

Mario Alberto Catarozzo

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Vuoi fare business? Ecco gli ingredienti

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Chiarezza di intenti, umorismo, strategia e buoni collaboratori: ecco come si costruisce una storia di successo. Parola di coach.

Nell’articolo, pubblicato su Vanity Fair My Business, vediamo nel dettaglio le 7 immancabili risorse che il professionista deve possedere per fare business e giungere al successo. Nella gallery si possono trovare 4 libri utili per fare business.

Mario Alberto Catarozzo

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Si può fare business e aiutare gli altri?

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Pare proprio di sì. In un nuovo libro, nato dall’unione delle esperienze di professionisti ed esperti di marketing e business development, si spiega come.

Sviluppare il business nello studio professionale – Strategie per un nuovo approccio in un mercato che cambia” questo il titolo del libro, edito da Alpha Test editore.

Gabriella Ferraro (Marketing & Business Development Manager), Elena Santoro (Counselor e Legal Marketing Consultant), Roberta De Matteo (Business Development & Communications Senior Country Manager), Leonardo De Leva (Communication and Marketing Manager and Consultant), Gaia Francieri (Business Development Manager), Isabella Fusillo (Marketing Manager) forniscono consigli ai professionisti interessati a combinare la realizzazione economica derivata dal proprio lavoro con l’utilità sociale che esso riveste.

Ulteriori dettagli nell’articolo pubblicato su Vanity Fair My Business.

 

Mario Alberto Catarozzo

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